Quel dolore che non vuole passare e che rappresenta un problema per l’atleta.. e per il medico
La patologia dei tendini, specialmente quando in forma cronica, resta un dilemma parzialmente insoluto nell’ambito della medicina, spesso manifestato dagli atleti al medico in modo tardivo rispetto al reale inizio del fenomeno degenerativo strutturale. Nel mondo del calcio rappresenta circa il 10% degli infortuni totali di una squadra professionistica nell’arco di una stagione e nonostante la relativamente alta incidenza, i trattamenti promossi nel corso degli ultimi decenni sono stati spesso caratterizzati da risultati limitati e basati su fondamenta scientifiche tutt’altro che solide.
Fino agli anni 2000 infatti si riteneva che alla base della patologia tendinea vi fosse un fenomeno infiammatorio dal quale venne coniato il termine “Tendin-ite” spesso ancora diffuso.
Più recentemente, tuttavia, è stata dimostrata la quasi totale assenza di cellule infiammatorie e ciò ha determinato il proliferare di nuove ipotesi, tra cui la più accreditata identifica un’evoluzione a tre fasi:
– Tendinopatia reattiva con un risposta non infiammatoria ad un sovraccarico
– Distruzione delle cellule e della matrice con proliferazione di vasi e nervi
-Tendinopatia degenerativa, caratterizzato da dolore cronico e tessuto tendineo degenerato in modo irreversibile.
Il perché il tendine inizi a soffrire rimane ancora una questione aperta: alcuni autori avanzano teorie vascolari, altri meccaniche, altri ancora hanno dimostrato un’influenza del sistema nervoso periferico.
Storicamente il primo approccio terapeutico è stata la somministrazione di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) o steroidei; le recenti scoperte hanno però messo in luce come la loro attività sia prevalentemente rivolta al controllo del dolore, agendo al contrario in modo negativo sulla riparazione tendinea e pertanto sulla guarigione del quadro clinico. Il loro utilizzo attualmente risulta dunque limitato, in particolare durante le fasi di “carico” del tendine.
Affrontare un percorso riabilitativo tendineo è pertanto più complesso di quanto possa sembrare; andrebbe anzitutto considerato il distretto anatomico interessato: mentre i tendini degli arti inferiori sono strutturati per immagazzinare e rilasciare continuamente energia elastica e pertanto vengono sottoposti maggiormente a forze di trazione (ad es. durante il cammino o la corsa), quelli delle estremità superiori devono principalmente svolgere funzione di scorrimento e sono assoggettati a meccanismi di frizione (ad esempio i tendini della spalla). Secondariamente vanno analizzati lo stadio della patologia, il grado di attività fisica, la presenza di patologie concomitanti e a tal proposito recenti studi hanno evidenziato ad esempio una correlazione tra patologie discale vertebrale e rotture del tendine di Achille. Non vanno trascurate eventuali terapie antibiotiche assunte e il gruppo sanguigno del paziente: è noto infatti come soggetti con gruppo 0 producano un tipo di collagene (tipo3) meno resistente e pertanto più suscettibile a patologia.
E l’attività fisica? Studi recenti hanno dimostrato come programmi specifici e graduali di contrazione muscolare eccentrica e isometrica possano avere un effetto analgesico e contrastare l’atrofia muscolare senza sovraccaricare l’unità muscolo tendinea. Le stesse modalità di allenamento sembrano essere peraltro efficaci nella prevenzione primaria e secondaria della patologia. Tuttavia, la somministrazione di questi programmi, determina spesso fluttuazioni dell’intensità del dolore a cui il paziente va psicologicamente preparato affinché non si scoraggi, conscio delle difficoltà di trattamento di queste patologie.
Eventualmente ci si può adiuvare con alcune terapie fisiche come crioterapia, laseterapia, tecarterapia, ultrasuoni…anche se la ricerca a supporto non garantisce evidenze scientifiche particolarmente solide. Recentemente si è vista infine l’esplosione delle terapie infiltrative come i centrifugati piastrinici (PRP), la scleroterapia e la proloterapia che tuttavia risultano anch’esse in fase di studio e gravate da costi abbastanza elevati.
La terapia chirurgica, in ultimo, rappresenta ad oggi lo step finale a cui rivolgersi in caso di refrattarietà al trattamento conservativo.
In conclusione, la patologia tendinea risulta essere un “enigma”, spesso specifico di ogni singolo atleta, di fronte al quale bisogna essere bravi “prestigiatori”, incastrando sapientemente il controllo del dolore, la modulazione del carico di allenamento, la correzione dei fattori di rischio e le strategie terapeutiche a propria disposizione, favorendo un rapporto di collaborazione multidisciplinare con colleghi medici, fisioterapisti, preparatori atletici e allenatori, evitando di incappare nell’errore più comune: la standardizzazione del trattamento.